Sentenze

Preavviso Fermo amministrativo : è nullo se non indica modalità calcolo interessi intimati

Commissione Tributaria Regionale Lazio sentenza n. 5210 del 23-07-2018
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La contribuente ( difesa dal Dott. Gian Luca PROIETTI TOPPI ) proponeva appello avverso la sentenza della CTP di Roma che aveva rigettato il ricorso avverso preavviso di fermo amministrativo in conseguenza dell’omesso pagamento di 23 cartelle di pagamento.

L’ appello merita accoglimento.

La Corte di Cassazione ha infatti più volte ribadito che la cartella di pagamento deve indicare, in ossequio al principio di trasparenza e di completezza motivazionale sancito dall’articolo 7 dello statuto del contribuente, il criterio seguito per la determinazione del totale degli interessi dovuti ( Cass. Civ. n. 10481/2018 ; Cass. Civ. n. 15554/2017 ).

La stessa Corte ha ulteriormente chiarito che è irrilevante il richiamo a quanto normativamente previsto dal DPR 602/1973. Infatti quel che viene messo in discussione non è tanto il diritto alla riscossione degli interessi di  mora, quanto invece l’esposizione del criterio seguito al fine di operare il loro calcolo totale ( cass. Civ. n. 9799/2017 ).

Di conseguenza l’atto impositivo de quo è nullo poiché , come in sostanza ammesso da Equitalia, privo di qualsivoglia indicazione dei criteri seguiti per il detto calcolo.
Commissione Tributaria Regionale Lazio sentenza n. 5210 del 23-07-2018

Va in vacanza e lascia solo il cane? Scattano reato e sequestro.

Cassazione penale, sez. III, sentenza 03/07/2018 n° 29894.

La III Sezione penale della Corte di Cassazione ha respinto (sentenza 3 luglio 2018, n. 29894) il ricorso per cassazione proposto avverso l'ordinanza con cui il Tribunale di Chieti aveva confermato il sequestro preventivo di un cane, lasciato solo per due settimane in occasione delle vacanze estive dell'imputata e della di lei famiglia.
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Nel caso sottoposto al suo esame la Suprema Corte ha ritenuto che il giudice distrettuale, avesse tenuto conto in modo puntuale e coerente delle concrete risultanze processuali, che avevano disvelato la ricorrenza delfumus commissi delicti nella reiterata assenza dell'indagata e nelle precarie condizioni di salute del cane, alle cui cure avevano provveduto i vicini impietositi dallo stato di abbandono in cui questo versava.
Nel ricorso per cassazione l'indagata aveva censurato la motivazione del tribunale del riesame, in ordine alla sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato, che non avrebbero potuto considerarsi ricorrenti nel caso di specie in quanto la stessa avrebbe lasciato al cane cibo e acqua e le precarie condizioni di salute di questo sarebbero state determinate dalla contratta pregressa lesmaniosi e non già dall'incuria della ricorrente.
I giudici di legittimità hanno però dichiarato inammissibile il ricorso ricordando come, in tema di sequestro preventivo e conservativo, lo strumento in questione sia utilizzabile solo per sindacare vizi afferenti la violazione di legge, intendendosi per tali gli errores in iudicando, gli errores in procedendo nonché i vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice. Situazione non ricorrente nel caso di specie avendo il giudice adeguatamente motivato in ordine all'accertato stato di abbandono dell'animale.

Fonte: (Altalex, 19 luglio 2018. Nota di Anna Larussa)

Rca: danni provocati da animali randagi e responsabilità degli Enti

Corte di Cassazione - VI sez. civ. - ordinanza n. 11591 del 14-05-2018

 
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La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 11591/2018, ha ritenuto i motivi non fondati ma fondato il terzo, riferito alle spese e qui non di interesse, ed ha accolto il ricorso. Sui punti controversi, in particolare il secondo, la Suprema Corte ha osservato che il motivo è infondato, poiché “ai fini dell’affermazione della responsabilità degli enti evocati in giudizio è necessaria la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile agli stessi. Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova”. Tale onere spetta all’attore danneggiato, in base alle regole generali e consiste nella allegazione e successiva dimostrazione della condotta obbligatoria esigibile dall’ente (nel caso di specie, omessa), e della riconducibilita dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria e ciò in base ai principi sulla causalità omissiva. Questo equivale a dire che, applicandosi i principi generali in tema di responsabilità per colpa di cui all’art, 2043 c.c., non è sufficiente – per affermarne la responsabilità in caso di danni provocati da un animale randagio – individuare semplicemente l’ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi, non essendo materialmente esigibile – anche in considerazione della possibilità di spostamento di tali animali – un controllo del territorio così penetrante e diffuso, ed uno svolgimento dell’attività di cattura così puntuale e tempestiva da impedire del tutto che possano comunque trovarsi sul territorio in un determinato momento degli animali randagi. Occorre dunque che sia specificamente allegato e provato dall’attore che, nel caso di specie, la cattura e la custodia dello specifico animale randagio che provocato il danno era nella specie possibile ed esigibile, e che l’omissione/tali condotte sia derivata da un comportamento colposo dell’ente preposto (ad esempio perché vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell’animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, e c’è nonostante quest’ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura). Diversamente, si finirebbe per applicare ad una fattispecie certamente regolata dai principi generali della responsabilità ordinaria per colpa di cui all’art. 2043 c.c., principi analoghi o addirittura più rigorosi di quelli previsti per e ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2052 e 2053 c.c.

Fonte: La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 11591/2018, ha ritenuto i motivi non fondati ma fondato il terzo, riferito alle spese e qui non di interesse, ed ha accolto il ricorso. Sui punti controversi, in particolare il secondo, la Suprema Corte ha osservato che il motivo è infondato, poiché “ai fini dell’affermazione della responsabilità degli enti evocati in giudizio è necessaria la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile agli stessi. Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova”. Tale onere spetta all’attore danneggiato, in base alle regole generali e consiste nella allegazione e successiva dimostrazione della condotta obbligatoria esigibile dall’ente (nel caso di specie, omessa), e della riconducibilita dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria e ciò in base ai principi sulla causalità omissiva. Questo equivale a dire che, applicandosi i principi generali in tema di responsabilità per colpa di cui all’art, 2043 c.c., non è sufficiente – per affermarne la responsabilità in caso di danni provocati da un animale randagio – individuare semplicemente l’ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi, non essendo materialmente esigibile – anche in considerazione della possibilità di spostamento di tali animali – un controllo del territorio così penetrante e diffuso, ed uno svolgimento dell’attività di cattura così puntuale e tempestiva da impedire del tutto che possano comunque trovarsi sul territorio in un determinato momento degli animali randagi. Occorre dunque che sia specificamente allegato e provato dall’attore che, nel caso di specie, la cattura e la custodia dello specifico animale randagio che provocato il danno era nella specie possibile ed esigibile, e che l’omissione/tali condotte sia derivata da un comportamento colposo dell’ente preposto (ad esempio perché vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell’animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, e c’è nonostante quest’ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura). Diversamente, si finirebbe per applicare ad una fattispecie certamente regolata dai principi generali della responsabilità ordinaria per colpa di cui all’art. 2043 c.c., principi analoghi o addirittura più rigorosi di quelli previsti per e ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2052 e 2053 c.c.

Fonte: www.diritto.it



Si possono tenere gli animali legati? La risposta della Cassazione

Rischia il carcere chi tiene legato un animale provocandogli delle gravi sofferenze: la Corte di Cassazione applica le disposizioni previste dall’articolo 727 del Codice Penale.
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Chi tiene gli animali legati - sia con corde che con catene - commette reato, come previsto dal seconda comma dell’articolo 727 del Codice Penale. Lo ha ribadito la terza sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza 10164/2018; secondo i giudici, infatti, tenere gli animali in catene è incompatibile con la loro natura e provoca loro delle gravi sofferenze. Ecco perché il padrone che tiene il cane - o qualsiasi altro animale domestico - legato è punibile con l’arresto fino ad un anno, oppure con un’ammenda che va dai 1.000 ai 10.000€. Naturalmente per far sì che il reato venga effettivamente commesso devono sussistere determinate condizioni; ad esempio, per essere sanzionabile il comportamento del padrone non deve essere temporaneo, ma persistente. Per fare chiarezza su quando tenere un animale legato equivale a reato cominciamo con l’analizzare il caso di specie sul quale si è recentemente espressa la Corte di Cassazione. Il caso di specie La vicenda non riguarda dei semplici animali domestici; i giudici del Palazzo di Giustizia, infatti, hanno dovuto decidere in merito al ricorso presentato dal gestore di un circo dichiarato colpevole dal Tribunale di Alessandria per aver detenuto in catene cinque elefanti, limitandone anche i movimenti più elementari. I giudici del Tribunale di Alessandria dopo aver rilevato che la situazione in cui si trovavano gli elefanti era incompatibile con le loro caratteristiche etologiche hanno sanzionato l’uomo al pagamento di un’ammenda pari a 2.000€, sulla base di quanto previsto dall’articolo 727 del Codice Penale sull’abbandono di animali. Questo stabilisce che: Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze. Per il caso di specie, quindi, si applica il 2° comma del suddetto articolo dal momento che legando gli elefanti per un periodo duraturo sono state inflitte loro delle gravi sofferenze. L’uomo ha fatto ricorso alla Cassazione dichiarando che in realtà ha tenuto gli animali legati solamente per il tempo necessario per far sì che gli addetti alla pulizia potessero completare il loro lavoro; una difesa che non sussiste poiché - come si legge nella sentenza della Cassazione - “gli animali erano legati con catene corte che ne impedivano i movimenti ed erano stati trovati in tale situazione all’interno del tendone dove venivano ricoverati per la notte, senza che vi fossero operazioni di pulizia in programma o in corso”. Per questo motivo la Cassazione ha confermato la sentenza ai danni dell’uomo, colpevole per aver tenuto gli animali in condizioni che vanno contro la loro natura; quindi la condanna è stata confermata e il gestore del circo ha dovuto versare 2mila euro in favore della Cassa, oltre a dover risarcire la LAV (Lega Anti Vivisezione) e l’Anpana (Associazione Nazionale Protezione Animali Natura Ambiente) che si sono costituite alle parti civili. Quando tenere gli animali legati è reato Concludiamo facendo chiarezza su quando chi lega un animale commette un reato. Come stabilito dai giudici della Cassazione ciò vale quando la situazione provoca un disagio duraturo all’animale. Si ha un “disagio” se l’animale viene tenuto in condizioni incompatibili con la propria natura e quando ciò gli provoca delle gravi sofferenze. Non commette reato quindi chi lega il proprio cane temporaneamente, ad esempio per il tempo necessario per assolvere alle operazioni di pulizia del box. Nel dettaglio, l’uso delle catene è consentito solamente “in via eccezionale” quando ciò è necessario per “provvedere ad esigenze di cura sanitaria e di benessere dell’animale, oltre che di sicurezza degli operatori e, comunque, per il solo periodo nel quale a tali incombenze si debba procedere”.

Fonte: www.money.it